5A Istituto Tecnico “Scaruffi-Levi-Tricolore” (RE) – 2021
Combes
Biagini
Combes Biagini nasce il 10 settembre 1920 a Villa Fazzano, una frazione di Correggio, da Leonzio e da Marcella Bigi. Il 9 settembre 1943 viene fatto prigioniero dai tedeschi e arrestato a Trento e internato in Austria nello Stalag XVII A di Kaisersteinbruch il 12 settembre 1943. Morirà prigioniero per cause sconosciute il 15 aprile 1944.
BIOGRAFIA
Secondo i dati riportati nell’atto di nascita, Combes Biagini nasce il 10 settembre 1920 a Villa Fazzano, una frazione di Correggio, da Leonzio e da Marcella Bigi. Il nome Combes, probabilmente un omaggio al politico francese Émile Combes che all’inizio del secolo aveva sancito la separazione tra chiesa e stato francese, potrebbe essere un indizio delle simpatie socialiste del padre. I Biagini sono una famiglia umile con un lavoro modesto. Come mezzadri, si trovano spesso a doversi trasferire per motivi di lavoro. Infatti Combes vive per un breve periodo a Lemizzone, poi è costretto a spostarsi a Cadelbosco di Sopra nel 1934. Dal 1939 risiede a Pieve Rossa, località nel comune di Bagnolo. Sa leggere e scrivere nonostante abbia come titolo di studio la 3° elementare.
Dal foglio matricolare veniamo a sapere che nell’aprile del 1942 è arruolato nell’esercito e assegnato ai servizi sedentari a causa della sua debole costituzione per poi essere messo in congedo illimitato. Nel settembre dello stesso anno viene però richiamato alle armi nel 46° reggimento di fanteria motorizzata.
In seguito all’armistizio, il 9 settembre 1943 viene fatto prigioniero dai tedeschi e arrestato a Trento. Gli archivi dell’esercito tedesco rivelano che è internato in Austria nello Stalag XVII A di Kaisersteinbruch il 12 settembre 1943. Morirà prigioniero per cause sconosciute il 15 aprile 1944 alle ore 12:05.
Riposa a Mauthausen (Alta Austria) nel cimitero militare italiano.
IL PROGETTO
Abbiamo deciso di adottare una pietra d’inciampo per mantenere viva la memoria di Combes Biagini, una delle tante vittime dell’odio nazifascista: un reggiano, un ragazzo come noi.
Le pietre d’inciampo sono state ideate dall’artista berlinese Gunter Demning nel 1995 e si sono poi diffuse in tutta Europa. Si tratta di piccole targhe d’ottone fissate su dei sanpietrini che vengono posate davanti all’abitazione in cui risiedeva la persona perseguitata. Su queste pietre sono incisi i dati biografici più importanti che riassumono la vita spezzata di tante persone: nel loro spazio limitato riescono a farci inciampare, cioè a farci soffermare sulla storia di un innocente deportato e ucciso perché si era opposto a un’ideologia sanguinaria o perché, come nel caso degli ebrei, era considerato indegno di vivere.
Le pietre sono un modo efficace e alternativo di conoscere la storia di quel periodo terribile anche nella città in cui viviamo: diventano una mappa che svela le dimensioni numeriche della deportazione e il legame tra Reggio e l’universo concentrazionario del III Reich. E soprattutto restituiscono un nome e una storia a chi, nelle intenzioni dei carnefici, doveva essere cancellato per sempre.
Conoscere da vicino la Seconda guerra mondiale è di estrema importanza e di notevole interesse per noi alunni di 5^. Purtroppo, a causa della pandemia, abbiamo dovuto svolgere questo progetto a distanza. Ma nonostante questo è stato un percorso istruttivo e coinvolgente che ci ha consentito di ricostruire la vicenda di Combes: abbiamo potuto percorrere le tappe della sua vita analizzando documenti conservati nell’archivio di Istoreco ma anche provenienti dalla Germania.
E alla fine quello che all’inizio era solo un nome è diventato una persona con la sua storia, la sua sofferenza e la sua dignità: un ragazzo che ha preferito essere deportato in un lager in Austria, piuttosto che combattere a fianco dei nazifascisti.
E che per questo ha pagato il prezzo più alto.
Una storia come tante
Mi chiamo Combes Biagini, in alcuni documenti nazisti troverete un altro nome, Cambris, così come lo hanno trascritto i tedeschi. Mi piacerebbe che non si trattasse di me, in fondo ho solo 23 anni. Purtroppo, però, questa volta a morire devo essere proprio io.
E sì, avete capito bene, sono morto a 24 anni, una vita spezzata, come un fiore prima di sbocciare. Io e, come me, altri milioni di persone. Nessuno ha fatto niente, fateci caso a questa cosa.
Non volevo collaborare con i nazifascisti e mi sono ritrovato prigioniero. Come stupirsi? Loro ottengono sempre tutto ciò che vogliono.
Me lo ricordo come se fosse ieri: ero nei pressi di Bolzano con il mio reggimento quando a un tratto arrivarono i tedeschi puntandoci le armi contro e urlando parole incomprensibili. Ci disarmarono e da lì cominciò il nostro incubo: siamo stati nel lager di Kaisersteinbruch, in Austria, dove io sono morto nell’aprile del 1944, forse per “malattia”, come vogliono farvi credere, oppure per colpa dei lavori forzati che quelle carogne dei nazisti mi obbligavano a fare. Dopo la mia morte ho viaggiato in una cassa di legno fino al cimitero del campo e poi fino al Cimitero militare italiano di Mauthausen.
Da quel giorno mi potete trovare qui, fila 8, tomba 840.
L’unica cosa che resta di me, ora, è questa pietra incastonata davanti casa mia, con inciso il mio nome e la mia data di nascita. La casa in cui, per me, non è più stato possibile ritornare.
Il testo è frutto di una libera rielaborazione degli autori a partire dai documenti d’archivio.
L’INTERVISTA IMPOSSIBILE
Buongiorno Combes; siamo onorati di incontrarti, possiamo farti alcune domande?
CB: Buongiorno ragazzi, certo: siamo più o meno coetanei.
Partiamo dal tuo nome: Combes… è davvero poco comune, per non dire unico…
CB: Émile Combes era un repubblicano francese considerato il padre della legge che nel 1905 sancì la definitiva separazione fra Stato e Chiesa e il carattere laico dello Stato francese. Così i miei, che erano socialisti, mi chiamarono Combes: allora era comune dare ai figli un nome che rispecchiava le convinzioni politiche dei genitori…
Raccontaci un po’ di te: dove sei nato, come hai vissuto la tua infanzia?
CB: Mi chiamo Combes Biagini, sono nato a Fazzano il 10 settembre 1920. Vivevo in una casa di campagna con i miei genitori, mio padre faceva il mezzadro, mia madre era casalinga e anch’io dopo la terza elementare ho iniziato a lavorare.
Essendo nato nel primo dopoguerra, ho vissuto da vicino quel brutto periodo: molte famiglie, compresa la mia, vivevano male, ad esempio ricordo che molti papà dei miei amici erano disoccupati, alcuni dei miei compagni di classe andavano a scuola con le scarpe bucate e con le toppe ai vestiti. Con il fascismo la situazione si è fatta ancora più dura.
Così io e la mia famiglia ci siamo spostati tante volte in cerca di lavoro: da Correggio, siamo andati a vivere per un po’ a Lemizzone, poi a Cadelbosco di sopra e infine ci siamo stabiliti a Bagnolo in Piano.
Come hai vissuto la chiamata alle armi nel 1942?
CB: Ricordo come se fosse ieri quel giorno: era l’ora di pranzo, io ero a tavola con la mia famiglia e avevamo appena finito di mangiare la polenta, quando, all’improvviso, sentimmo qualcuno bussare alla porta… mia madre aprì e si ritrovò due soldati davanti, con in mano un foglio. Uno dei due soldati chiese: «È qui che abita Combes Biagini?». Lei fece un cenno con la testa e scoppiò in lacrime.
Io capii subito il motivo della loro visita e potete ben immaginare cosa successe dopo…
Come hai reagito alla firma dell’armistizio l’otto settembre 1943?
CB: Io ero contento della caduta di Mussolini perchè pensavo che così sarebbe arrivata la pace. Ma poi l’armistizio fece dell’Italia un paese allo sbando: noi italiani ci avviammo a un terribile periodo di stenti, bombardamenti, rappresaglie e guerra civile.
L’otto settembre noi soldati non avevamo ordini, non sapevamo che fare: non sparare più agli angloamericani? Iniziare a colpire i tedeschi?
Come mai hai scelto di diventare prigioniero invece di continuare a combattere?
CB: Dopo l’Armistizio i soldati tedeschi ci catturarono. Avevamo due possibilità: la prima era continuare a combattere al loro fianco e l’altra era quella di diventare degli internati nei campi di concentramento.
Io ero consapevole dove la mia scelta mi avrebbe portato, ma ho preferito le sofferenze del lager piuttosto che unirmi ai nazifascisti e rinnegare la mia patria.
Così sono diventato un “IMI”, che vuol dire internato militare italiano.
Quali erano le condizioni di vita nel campo?
CB: Io ero internato a Kaisersteinbruch, stalag XVII A. In quel campo si pativa la fame, il lavoro era massacrante. Le vittime venivano rimpiazzate continuamente dai nuovi arrivi, per permettere il mantenimento della produttività e redditività del campo al massimo livello possibile. Ricevevamo bastonate anche per la minima infrazione al regolamento che ci veniva imposto. Le privazioni e i maltrattamenti mi portarono alla morte: avevo solo 24 anni.
Cosa ne pensi della pietra d’inciampo che verrà intitolata a tuo nome davanti a casa tua?
CB: Per me è un gesto molto importante, che mi commuove perché riconosce il mio sacrificio. Furono più di 600.000 i soldati che dissero no alla RSI e al nazismo: questo è amore per la propria patria e molti l’hanno pagato con la vita. La pietra d’inciampo è un riconoscimento che dovrebbe essere dato a tutti quegli IMI che, come me, sono stati obbligati a combattere una guerra che non volevano e che poi sono stati traditi e abbandonati.