Lorenzo
Caluzzi
BIOGRAFIA
Lorenzo Francesco Caluzzi è nato il 10 marzo 1924 a Levizzano di Baiso, in provincia di Reggio Emilia, da Luigi Caluzzi e Carolina Casali; nel medesimo giorno è stato battezzato nella parrocchia di Levizzano. È cresciuto a Borgo di Levizzano n°7; dalla scheda personale contenuta negli archivi del Comune di Baiso risulta essere celibe e agricoltore di professione, come probabilmente lo erano i genitori.
Venne deportato il 15 agosto 1944 all’età di vent’anni. Date le testimonianze a nostra disposizione, quando arrivarono i tedeschi Lorenzo si trovava a Caliceto con un suo amico di nome Giovanni; ai due era stato detto di scappare per i campi, e così aveva fatto Giovanni. Tuttavia Lorenzo temeva che se fosse scappato i nazisti avrebbero bruciato casa sua, quindi non tentò la fuga e venne catturato. Venne in seguito portato al campo di transito di Fossoli, da cui fu trasferito al campo di lavoro di Kahla, in Turingia, una regione molto fredda della Germania centrale; da quel momento non si ebbero più notizie di lui. A Kahla i deportati venivano sfruttati per la costruzione del Messerschmitt Me 262, un aereo a reazione che avrebbe dovuto ribaltare le sorti della guerra a favore della Germania. Le condizioni di vita all’interno del campo erano precarie e i deportati erano costretti a lavorare ininterrottamente dalla mattina alla sera. Dal documento della Croce Rossa Internazionale risulta che Lorenzo morì il 19 gennaio 1945 per esaurimento; l’atto di morte venne compilato dal Comune di Baiso nel 1949. A partire dal 1965 qualcuno ha cercato informazioni riguardo la sua permanenza a Kahla, tuttavia non fu più trovata nessuna informazione su di lui.
Intervista a Suor Agata, sorella di Lorenzo Caluzzi (opera di finzione degli studenti)
Suor Agata, al secolo Dina, è sorella di Lorenzo Caluzzi, deportato civile nel campo di lavoro di Kahla e risultato disperso alla fine della guerra. Ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande per ricostruire la storia di suo fratello e per aiutarci a conoscere meglio la deportazione avvenuta dall’Appennino reggiano verso la Germania nazista, nel periodo che va dall’estate del 1944 fino alla fine della guerra.
Suor Agata, la storia di suo fratello accomuna molte altre famiglie di questa zona. Cosa ricorda della vita prima dello scoppio del conflitto?
Di quel poco che ricordo, era un periodo tranquillo e trascorrevamo una vita di faticoso lavoro in campagna. Poi è scoppiata la guerra e non abbiamo subito avvertito un grande cambiamento nelle nostre vite, se non che sentivamo comunque la tensione causata dal conflitto. L’Italia era alleata con la Germania e non eravamo troppo preoccupati. Poi, dopo la firma dell’armistizio l’8 settembre del ‘43, l’Italia si divise in due e trovandoci a nord della linea gotica, abbiamo sentito ancora di più la divisione e la paura.
Quali informazioni più dettagliate può darci riguardo alle deportazioni sull’Appennino?
Dopo che Badoglio ebbe firmato l’armistizio e i tedeschi iniziato l’invasione, si formarono dei gruppi di resistenza partigiani. Le famiglie locali li supportavano come e quando potevano, sempre con molta paura. Spesso passavano dei tedeschi su camionette e prendevano gli uomini che potevano combattere o lavorare. Chi si rifiutava di andare in guerra al fianco del duce, veniva inviato nei campi di lavoro in Germania senza poter prendere quasi niente con sé. Sono molti quelli che non sono tornati e sono morti per le fatiche dell’estenuante lavoro e per il poco cibo che ricevevano.
Potrebbe raccontarci più in particolare la storia di suo fratello Lorenzo?
È nato nel ‘24, due anni prima di me. Era un ragazzo a cui piaceva lavorare e a amava la sua famiglia. A 20 anni, mentre era a Caliceto, un gruppo di tedeschi lo prese ma lui non fece resistenza perché aveva paura di una ripercussione sulla sua famiglia. Era il 15 agosto, se non sbaglio. Un altro con lui di nome Giovanni invece scappò per i campi e si salvò, riuscendo a raggiungere la mia famiglia qua a Levizzano e a dare la notizia. Mai avrei pensato che non l’avrei più rivisto. Sapevamo che quelli che venivano presi venivano portati a Fossoli e probabilmente anche lui lo hanno portato là. Poi non ho più avuto sue notizie.
Avete fatto ricerche dopo la fine della guerra? Cosa avete scoperto?
Dopo la fine del conflitto è stato dichiarato disperso nel censimento del ‘51. Avevamo però saputo che molte famiglie avevano fatto richiesta per sapere qualcosa sui loro figli e mariti. Anche noi abbiamo deciso di provare, e dopo qualche tempo, è arrivata una risposta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tramite delle ricerche della Croce Rossa, abbiamo saputo che Renzo era morto nel campo di lavoro di Kahla il 19 gennaio del 1945 per esaurimento. Non ci diedero tante altre informazioni e tanto altro che non sapessimo già.
La storia di Lorenzo Caluzzi accomuna molte altre famiglie dell’Appennino reggiano che durante la seconda guerra mondiale furono colpite dalla deportazione civile. Con questa intervista abbiamo voluto ricordare la storia non solo di Lorenzo ma di molte altre persone che subirono la stessa sorte. Non si tratta di persone importanti ma di gente normale che è stata investita dalle tragedie della guerra. Perciò è importante ricordare ciascuna singola vita per restituire dignità ai tanti deportati civili.
Diario (opera di finzione degli studenti)
Era una calda mattina d’estate e mi trovavo presso la mia abitazione di Borgo di Levizzano, vicino a Baiso; erano le sei e mezza di mattina quando sono stato svegliato dal mio gallo. Come ogni mattina mi sono alzato e ho fatto colazione con pane e latte; mi sono preparato per andare a lavorare nei campi con il mio compagno Giovanni. Ci siamo incontrati davanti a casa mia e ci siamo incamminati verso Caliceto. Durante il viaggio con la coda dell’occhio ho notato alcuni soldati che ho subito riconosciuto come appartenenti all’esercito tedesco per le loro divise; nonostante ciò non ci ho fatto molto caso e abbiamo continuato a camminare. Arrivati al campo, abbiamo iniziato a zappare e a raccogliere gli ortaggi. Il tempo trascorreva velocemente e, verso l’ora di pranzo, abbiamo deciso di tornare a casa per mangiare. Quando siamo arrivati alla nostra abitazione ho notato alcuni soldati tedeschi che portavano via due mucche; subito ho pensato che avessero rubato i miei animali, quindi dissi a Giovanni che mi sarei avvicinato a loro di nascosto per scoprire cosa stessero facendo. Egli mi ha guardato con aria dubbiosa e sembrava quasi terrorizzato, cercando subito di dissuadermi, temendo una ripercussione tedesca, ma io non gli ho dato ascolto. Mi sono nascosto dietro a un albero dove potevo osservare cosa stesse succedendo e Giovanni mi ha seguito controvoglia. Io mi sono avvicinato sempre di più, arrivando all’angolo della casa, mentre il mio compagno è rimasto dietro l’albero. Ma i soldati mi hanno visto e sono accorsi verso di me. Non ho fatto in tempo a girarmi verso Giovanni che i tedeschi mi avevano già raggiunto, mentre il mio amico era scappato. Sono stato arrestato e scagliato su un carro dove si trovavano altre persone della zona e tra questi ho riconosciuto alcuni miei conoscenti, catturati anch’essi dagli invasori. Quest’ultimi ci parlavano in tedesco, ma io non capivo neanche una parola; per fortuna un prigioniero, che conosceva la loro lingua abbastanza bene, ci ha tradotto il loro discorso: ci avrebbero portato a Fossoli con la scusa di darci un lavoro. Entro sera siamo arrivati e siamo rimasti nel campo per circa una settimana; ogni giorno arrivavano sempre nuove persone. Una mattina, dopo la solita conta giornaliera, è arrivato un camion sul quale sono state caricate tutte le persone presenti e durante il viaggio ci è stato detto che avremmo ricevuto un lavoro una volta raggiunta la Germania. Il trasferimento è durato all’incirca una settimana; siamo stati condotti in un complesso chiamato Reimahg vicino a Kahla dove avremmo lavorato come operai per diverse aziende locali, in fabbriche ubicate all’interno del complesso stesso.
Le fabbriche sono costruite sotto terra, interrate in una collina, per resistere agli assalti aerei nemici e sono raggiungibili tramite tunnel appositamente scavati nel terreno. Nelle fabbriche gli operai sono impegnati nella costruzione di caccia utilizzati per scopi bellici dall’aereonautica militare. Quando siamo arrivati per la prima volta nel campo ci è stato ordinato di liberarci dei nostri vestiti e di indossarne altri fornitici da loro, che presentano un simbolo di riconoscimento per ogni persona proveniente da una nazione diversa. Dopo questo abbiamo pranzato in compagnia dei soldati tedeschi e il cibo non era niente di spettacolare ma neanche disgustoso. Dopo una breve pausa le guardie ci hanno diviso in più gruppi, ognuno destinato a un lotto diverso dove avremmo alloggiato durante il periodo lavorativo. Ci hanno radunato in una parte del campo, ci hanno spiegato il regolamento e ci hanno illustrato le varie zone del complesso, in particolare le varie fabbriche; tuttavia ci hanno vietato severamente di entrare in una parte specifica del complesso senza spiegarne il motivo. Giunta sera abbiamo cenato in compagnia dei compagni e ci hanno rinchiusi nelle baracche, dove abbiamo passato il resto della notte. La mattina seguente siamo stati svegliati all’alba dai soldati che fecero la conta e, una volta confermata la presenza di tutti i lavoratori, ci è stata consegnata la colazione: ci è stato dato del pane secco con della marmellata probabilmente scaduta. Ci hanno subito fatto iniziare a lavorare senza mai fermarci e le uniche pause erano per il pranzo e la cena; alla fine della giornata siamo stati rinchiusi nelle baracche senza alcuna possibilità di uscire e siamo crollati esausti sui nostri letti.
È passato un po di tempo e ora rimpiango quei primi giorni; la situazione da allora è diventata critica. Le ore di lavoro sono sempre più lunghe, fino ad arrivare alle 12 ore giornaliere, mentre le pause sono sempre meno, più corte e più distanti; il cibo peggiora di giorno in giorno e anche i pasti diminuiscono, infatti, prima è stata eliminata la colazione e poi è stata abolita la cena. A pranzo ci viene consegnato del pane nero ammuffito composto da segale e segatura di pioppo con un po’ di marmellata o una fetta di salame, e, una volta alla settimana, dovremmo avere un pezzo di margarina, ma pochi ricordano di aver ricevuto questo cibo regolarmente. Anche la situazione igienica è disastrosa: i topi infestano le nostre capanne e i vestiti sono pieni di pulci, questo è dovuto inoltre al fatto che non ci è mai stato dato un cambio di vestiti; c’è solo un bagno per tutta la nostra casata e le docce comuni hanno acqua sporca e non sono mai pulite. È stato anche istituito un ospedale ma questo è del tutto inutile: molti dei bisognosi che si recano in quel luogo sono in condizioni tale che, nella maggior parte dei casi, non riescono a sopravvivere ed sono mandati lì a morire.
I soldati, che all’inizio ci sono apparsi abbastanza clementi, con lo scorrere del tempo, sono diventati sempre più aggressivi nei nostri confronti e le violenze sono diventate sempre più comuni: è capitato diverse volte che alcuni nostri compagni, dopo le bastonate dei militari, senza un aiuto medico, sono morti sul posto all’instante. Inizialmente ci buttavano l’acqua fredda addosso e ci affaticavano con lavori inutili, ma col tempo le loro azioni si sono rese sempre più estreme; ho sentito dire che in una delle baracche vicine alla mia un prigioniero aveva trovato una mela e, mentre stava per mangiarla, un tedesco se ne è accorto e, credendo che l’avesse rubata, gli ha sparato. Alcuni dei miei compagni hanno provato a ribellarsi ed è da una settimana che non li vedo; certi sostengono di aver visto i militari bastonarli e portarli in quella parte del campo a noi vietata. A causa della mia curiosità ho deciso che devo scoprire che cosa succede in quella zona, così adesso mi ritrovo a cercare di scoprire questo mistero: mi sto nascondendo dietro a un camion per il rifornimento da circa trenta minuti e finalmente stanno aprendo i cancelli…
Non avevo idea dell’orrore che avrei visto da li a poco: ci sono cadaveri a terra, uomini che vengono bastonati dalle guardie mentre lavorano e alcuni prigionieri che scavano enormi fosse, mentre altri gettano i corpi dei propri compagni in queste buche. I cancelli si stanno per chiudere, ma ho fatto in tempo, purtroppo, a vedere una scena orrenda: un bambino si è avvicinato a un soldato e lui gli ha sparato, senza un minimo di compassione. Mi sono sentito male e pensavo di svenire, così mi sono allontanato: se mi avessero beccato lì, sarei stato io quello ad essere rinchiuso in quel posto maledetto e al solo pensiero mi vengono i brividi.
Le sorprese però non finiscono qua, infatti la pessima condizione in qui mi trovo è aggravata anche dal tempo sfavorevole. La situazione era già difficile da sopportare in estate ma adesso che è inverno la vita è insostenibile; infatti, nonostante la pioggia, siamo costretti a lavorare e si dorme con i vestiti bagnati. La maggior parte di noi non riesce a sostenere il peso di questi giorni terribili e muore, altri preferiscono buttarsi sul filo elettrico, che circonda il complesso, ed essere folgorati all’istante piuttosto che sopportare un altro giorno di fatiche nel campo.
Questa mattina mi sono svegliato più stanco del solito: ieri ho lavorato fino a notte fonda e ho dormito per circa un’ora soltanto. Il clima è più rigido del solito e le guardie sono più nervose e irascibili del normale. Appena svegli ci è stato comunicato che oggi non avremmo ricevuto cibo a causa della carestia. Non so se riuscirò a sopravvivere.