Pensieri dopo la visita al campo di concentramento femminile di Ravensbruck

Alle pareti del museo scorrono immagini di giovani donne, guardie del campo di concentramento femminile di Ravensbrück che, con cani al guinzaglio, controllano minacciosamente coetanee con l’unica colpa di appartenere a Paesi “traditori” o praticare una religione poco gradita o ancora essere parenti di dissidenti.

Per le guardie del campo era la normalità, loro chiamavano lavoro quel che oggi definiamo crimine. Spedivano cartoline scritte a mano con messaggi di affetto alle famiglie; cariche di umanità, sembrano quasi svestirsi degli abiti di soldato e avvicinarsi come non mai ai deportati. L’umanità forse non è mai morta del tutto in questi luoghi; la paura, a volte, ha colpito anche loro e mentre gli ordini piovono dall’alto forse le vittime della guerra sono molte più di quelle contate dagli archivi. E mentre si parla di portare avanti la memoria per non ripetere gli stessi errori, alti muri lentamente si ergono e nuove persone si sentono sempre più emarginate.

Poco lontano un’altra baracca espone i volti delle deportate prima del loro internamento. Ognuna ha un’espressione diversa, seppur confusa, ma tutti i visi sono realtà differenti. Hanno nome e cognome, luogo e data di nascita e addosso portano la loro storia. Basterà poco e le loro espressioni scivoleranno lentamente, così come i vestiti sui corpi magri. Le lettere diventeranno numeri, cifre sempre più alte e l’unica cosa che interessa i soldati è il viaggio e i lager che il deportato ha già percorso. Le individualità si perdono oltre le rive del lago che incorniciano quel silenzioso paesaggio e l’unico colore a spiccare tra le ossa e il gelido inverno è quello dei triangoli appuntati al petto di milioni di corpi divorati da quella feroce guerra.

Michela Mulas – 4R Liceo Zanelli – Reggio Emilia